L’ultima parola: ovvero l’arte di tacere rassicurando

In ogni professione che abbia un punto di collegamento tra chi chiede (aiuto) e  chi offre (cura), esiste un sottile filo comunicativo che non è evidente, ma non per questo è meno importante … anzi! è quello che conosciamo quando abbiamo dei figli piccoli o ci vengono affidati nipotini e cuginetti i quali, in un discorso lungo ed elaborato colgono solo la “fugace”, quasi impercettibile, parolaccia (in genere “c@##0” è la più apprezzata dai teneri pargoletti) che ci porta poi a tentare di riparare in tutti i modi senza risultato.

Beh questo è quello che ho capito, anche mio malgrado, nel momento in cui noi terapeuti, abbiamo un colloqui con i nostri pazienti…chiaramente il c@##0 non entra nella discussione in oggetto 🙂

Come la parola ha effetti terapeutici nella “Terapia Verbale”, nella psicanalisi e nelle tecniche di verbalizzazione, nelle belle e descrittive pagine dei manuali della Dott.ssa Mereu  (che non smetterò mai di ringraziare pur non condividendone totalmente i pensieri) e di altri terapeuti che sanno quale è il peso della “parola” singola oltre che della “frase” tutta; così anche le stesse parole e termini hanno effetti devastanti rendendo talvolta vane le più efficaci terapie, innescando a loro volta processi patologici o riacutizzandone gli effetti. Tutto ciò deve far capire a noi che non basta una terapia farmacologica, chirurgica, manuale, manipolativa, riabilitativa se non vi è un adeguato controllo e selezione dei termini che vengono utilizzati.

Facendo degli esempi concreti mi è capitato recentemente il caso di una paziente, giovane, che aveva partorito alcuni mesi fa con  disturbi di tipo neurodistonico a cui si erano associati dati di laboratorio suggestivi per una diminuita linfocitemia ed una granulocitosi. Le valutazioni specialistiche eseguite non riscontravano alcunché di patologico o di netti segnali clinici correlati a patologie specifiche, sia di tipo neurologico che di tipo ematologico. Ma allora perché ve ne parlo? Perché qualcuno di loro, parlando alla paziente, utilizzò il termine linfoma. Che avesse detto “NON è un linfoma” oppure “è un linfoma” non cambia perché il termine linfoma è risultato dominante rispetto alla sua negazione (il  “non è”). In altri casi il termine “tumore”, normalmente utilizzato per l’origine semantica tumor (massa, tumefazione), risulta purtroppo percentualmente ed elettivamente utilizzato nell’identificare una formazione maligna. Quest’ultima viene in alcuni casi denominata anche “cancro” (la parola ‘cancro’ deriva, dal greco karkinos, che significa ‘granchio’.) che evoca terribili conseguente. Ma il terapeuta che dice “cancro” dovrebbe ben capirne la forza e la virulenza, soprattutto in un soggetto che si trova da lui per avere speranza: una cosa è l’illudere un conto è demolirne le difese (ndr F. Bottaccioli e la psiconeuroendocrinoimmunologia PNEI). Mi ricordo di un paziente affetto da adenocarcinoma invasivo e metastatico del pancreas che venne sottoposto solo ad una laparotomia con derivazione bilia-pancratica perché inoperabile vista la diffusione retroperitoneale, questo paziente, malgrado le aspettative medie di vita per questa patologia, sopravvisse più di 1 anno e si spense pian piano malgrado una fistola cutanea lo costringesse a venire in ambulatorio 1 volta ogni due settimane per le medicaizoni e i controlli. Il suo segreto? beh! sicuramente non avere mai perso le speranze, avere un grande spirito ironico e grande fiducia per i medici che lo curavano (mai avevamo espresso angoscia o realistica preoccupazione per le sue condizioni).

Un altro problema si pone per i cosiddetti -omi. Che si tratti di angiomi o sarcomi non cambia, cioè non si differenzia la categoria istologica ma tutti sono “maligni”. Spesso mi capita, nel corso di una ecografia, di osservare la presenza di angiomi epatici o adenomiomi della colecisti. La mia regola, se può essere un esempio, è quella di parlare al paziente e spiegare già quello che poi troverà per iscritto nel referto. Spiegare significa anticipare, non creare false attese, non creare spiacevoli sorprese.  Ad esempio mai (il “quasi” è d’obbligo) terminare l’indagine, la visita,  il consulto dicendo “tutto bene, tutto normale”, quando si sa che in realtà non è del tutto vero, ma vi sono delle formazioni, rilievi, test risultati anormali, anche se non correlabili ad una vera “malattia”. Utilizzando una voce calma e guardando negli occhi il paziente mentre gli si danno spiegazioni, non sfuggendo al suo sguardo, si  evitano spiacevoli situazioni.

Proseguendo con gli esempi, alcune strutture hanno un ruolo primario nell’evocare patologie gravi. La prima tra  queste riguarda i “linfonodi” che spesso incontriamo quando si esegue la palpazione delle regioni cervicali, latero-cervicali e sub-occipitali, nei pazienti che giungono alla nostra attenzione per dolori cervicali o  disfunzioni della ATM.

Nei pazienti il linfonodo è una struttura che si associa a tumori. Infatti, nella mia esperienza chirurgica, i pazienti spesso confondono linfonodo con metastasi. Forse di questo dobbiamo  “ringraziare” trasmissioni radiofoniche e televisive, oltre alla facile fruibilità del Web, nelle quali il termine è stato travisato: da linfonodo metastatico a linfonodo sembrerebbe piccola la differenza terminologica ma purtroppo è  enormemente diversa dal punto di vista clinico e prognostico. Le informazioni che vengono spesso date ai pazienti dovrebbero essere molto ben misurate perché ad ogni vocabolo corrisponde uno stress emotivo che può in alcuni casi addirittura pregiudicare il risultato della terapia mentre in altri anche garantirne l’efficacia.

Vero è anche che, talvolta, si incontra quella che potremmo definire una pubblicità fuorviante; questa è fatta per ottenere vantaggi pubblicitari e di marketing, utilizzando in modo semplicistico termini che in realtà sottendono elementi  patognomonici precisi. Ad esempio riposizionare un’ernia discale all’interno del disco, rimettere in sede  un tendine (ad esempio il tendine del capo lungo  bicipitale nella   doccia omerale  omonima). Di questi due esempi potremmo dare spiegazioni più realistiche , senza per questo eccedere in informazioni troppo specifiche e di difficile comprensione. Uno dei vizi che più spesso trovato nei medici, in particolare nei medici specialisti, e negli osteopati quando mi è capitato di essere commissario per gli esami di D.O. era la ridondanza di terminologia assai specifica che, all’opposto, rendeva  in realtà molto più ansiosi i pazienti diminuendone la compliance e la confiance con il terapeuta.

Dire che “facciamo rientrare” le ernie anche se vi smbra una sciocchezza può essere un grosso problema nel momento in cui si compilasse, poi, la scheda di consenso informato al trattamento. Dire che si riposiziona il tendine del CLB senza sapere se la sua medializzazione sia data dalla rottura del legamento trasverso e dal distacco parziale del sovraspinato dal trochite, potrebbe essere anche impugnato in ambito medico legale per  “errata fornita informazione” …

Quindi che dobbiamo fare? cosa possiamo e io che faccio? spiego quanto è possibile e nel modo più semplice possibile, rassicurando e talvolta taccio perchè il silenzio è d’oro ed è più prezioso di centinaia di parole inutili, probabilmente già lo sapete. In più avere a tutti i costi l’ultima parola non serve…soprattutto non vorrei mai fosse davvero l’ultima.

 

A presto

D.Bongiorno

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